lunedì 23 giugno 2008

Maiellaro: il poeta del calcio

Taranto, 25 giugno 1987. La notizia della cessione di Pietro Maiellaro agli acerrimi rivali del Bari provoca una vera e propria insurrezione dei tifosi ionici. I supporters rossoblu assaltano la sede della società in Viale Virgilio, contestando il presidente Fasano. Maiellaro guida comunque il Taranto negli spareggi salvezza di serie B che si disputano a Napoli pochi giorni dopo. Il primo luglio, con il pareggio con il Campobasso che vale la salvezza, il genio di Candela disputa l’ultima partita con la maglia del Taranto. Inizia così la grande avventura a Bari (costo dell’operazione 2 miliardi, 600 milioni e due giocatori): quattro stagioni indimenticabili, che fanno innamorare i tifosi biancorossi di un fuoriclasse capace di fare magie con la palla, un poeta del calcio capace di tracciare traiettorie impossibili, di accarezzare la sfera di cuoio con la delicatezza e la precisione di un dio del calcio.

Una carriera la sua segnata dal genio e dalla sregolatezza. Un modo di vivere il calcio fuori dagli schemi, da idolo ma anche da anti eroe per eccellenza. Un talento puro che poco amava le interviste e le cronache. Maiellaro ha sempre amato il calcio, quello puro e istintivo, fatto di passione di giocate ad effetto, il calcio dei numeri 10, quelli di una volta, quelli che facevano innamorare i tifosi e che trascinavano la gente allo stadio. Un grande talento rimasto in parte inespresso.

Anche l’incantesimo di Bari svanisce nell’estate del 1991, Maiellaro viene ceduto alla Fiorentina di Batistuta e dei Cecchi Gori. Non è un’annata felice per la squadra viola che conclude il campionato al dodicesimo posto. L’ex fantasista del Bari non brilla quasi mai, eclissandosi poco alla volta, raccogliendo 25 presenze e 4 reti. L’otto marzo 1992 Maiellaro torna a Bari da ex: il pubblico del “San Nicola” lo sommerge di fischi e lo chiama traditore, ma in fondo è il suo destino essere amato oppure odiato. Il sogno della serie A finisce presto: a fine stagione il centrocampista foggiano finisce a Venezia, dove disputa un altro campionato incolore. La stagione successiva è la volta di Cosenza, dove realizza uno dei gol più belli della sua carriera, guarda caso proprio contro la Fiorentina.

Chiusa la carriera da calciatore, per “lo zar” è iniziata quella da allenatore: Campobasso, la Berretti del Foggia, Lucera, Noicattaro, Barletta e Apricena le sue squadre da tecnico. Una esperienza in realtà non proprio esaltante, che ha permesso comunque all’ex fantasista di mettere in mostra le doti da allenatore. Oggi 17 anni dopo il suo addio, Maiellaro torna a Bari, dove allenerà i ragazzi della Primavera biancorossa, sostituendo Vincenzo Tavarilli che assumerà l'incarico di direttore tecnico del settore giovanile.

Che sapore ha questo ritorno a casa?

“Per me è un ritorno importante, un sogno che si realizza”.

Cosa può insegnare Maiellaro ai giovani?

“Innanzitutto vorrei trasmettere loro sicurezza e fargli capire che la Primavera può essere un trampolino importante per il debutto in prima squadra. In squadra ci sono giocatori di talento che possono far bene come Galano e Bellomo, due ’91, e Infimo. Spero di fargli capire che il calcio dev’essere anche e soprattutto divertimento”.

Torniamo indietro a quel giugno del 1987. Una intera città scese in piazza per impedire la sua cessione al Bari.

“Quelli di Taranto sono ricordi indelebili. Una piazza molto calda dove ho vissuto due belle stagioni. Quel giorno lo ricordo bene, mi trovavo a Taranto e stavo andando in sede quando vidi la folla radunata in Viale Virgilio. Non potetti fare altro che nascondermi in macchina e andare via. Quella fu comunque una bella dimostrazione di affetto da parte dei tifosi che non volevano fossi ceduto proprio al Bari. Col tempo invece quella cessione si è rivelata per me una cosa fantastica, perché ha segnato l’inizio della mia avventura in biancorosso”.

Qual’è stata la pagina più bella dei quattro anni a Bari?

“Direi senza dubbio l’anno in cui abbiamo centrato la promozione in A. La nostra era una squadra “tosta”, con giocatori di carattere e uno spogliatoio eccezionale. Un gruppo fondato soprattutto sul rispetto reciproco. Anche in serie A, nella mia ultima stagione a Bari ci siamo tolti delle belle soddisfazioni, battendo squadre come Juventus e Milan”.

Meglio il Bari spettacolare di Catuzzi o quello concreto di Salvemini?

“Il Bari di Catuzzi è stata senza dubbio una squadra straordinaria. Purtroppo però non ha ottenuto i successi che meritava, pur essendo riuscita ad esprimere, soprattutto in trasferta, un calcio spettacolare. Con Salvemini la squadra è diventata più solida, ha badato più alla classifica che al gioco”.

Si è mai pentito di aver lasciato Bari per Firenze?

“Col tempo sicuramente mi sono pentito, non tanto di aver scelto Firenze quanto di aver lasciato Bari. Allora pensavo che fosse per me una grande opportunità”.

Dopo la breve parentesi in viola, Venezia e Cosenza, dove ha segnato probabilmente il gol più bello della sua carriera.

“Sicuramente è stato il gol più particolare di quelli che ho segnato. Probabilmente se lo avessi fatto in serie A oggi continuerebbero a trasmetterlo di continuo. In quell’azione ne dribblai e ne caddero parecchi. Di fronte avevo giocatori come Effenberg, Iachini, Carnasciali e Pioli. Senza dimenticare in porta un certo Toldo”.

E il gol da centrocampo al “San Nicola” contro il Bologna?

“Lì magari più che il gol in se stesso c’è da premiare il gesto tecnico e l’abilità di essere riuscito a calciare da metà campo. Anche se sicuramente il portiere ci ha messo del suo”.

Qual’è stato l’attaccante più forte con cui abbia mai giocato?

“E’ difficile dirlo poiché ogni giocatore ha le sue caratteristiche. De Vitis ad esempio nei sedici metri era fenomenale, dotato di un piede di velluto. Però se andiamo ad analizzare elementi come la tecnica, il dribbling e la qualità, il vero fenomeno è stato Joao Paulo. Palla al piede era incontenibile. Attaccanti come Monelli e Scarafoni avevano grandi qualità, ma Messina rimane per me uno dei più grandi. Poi ho avuto la fortuna di giocare con un grande campione come Batistuta, anche se quando sono arrivato a Firenze per lui era il primo anno in Italia e stilisticamente non  era il massimo. In compenso aveva una forza fisica e una capacità di vedere la porta davvero impressionanti”.

A Taranto la chiamavano il poeta. Esistono ancora i numeri 10 alla Maiellaro?

“Quello era un calcio diverso, in cui si lasciava più spazio al talento, alle giocate per far entusiasmare la gente e allo spettacolo. I grandi talenti ci sono ma bisogna lasciarli giocare. Tocca a noi allenatori il compito di rischiare e premiare i  giocatori dotati di tecnica e fantasia”.

A proposito di talenti, come giudica l’europeo di Cassano?

“Finora non ho visto grandi prestazioni da parte sua. Ha fatto un pò più del compitino, ma non ha provato a saltare l’uomo, a trovare la giocata individuale. Il suo è stato una specie di riscaldamento, utile a conquistare la fiducia dell’allenatore. Sono sicuro che già dalla prossima partita vedremo un grande Cassano”.

Pubblicato su Bari Sera del 21/06/2008

martedì 17 giugno 2008

Francia o Spagna.. purchè si giochi..

L’incubo è finito. L’Italia approda ai quarti di finale di Euro 2008, con buona pace di tutti i biscottari, i complottisti e tutti i discendenti dell’italica convinzione che si perda sempre per colpa degli altri: la sfortuna, gli arbitri, gli avversari e il grande circo del pallone.

In realtà è stato sufficiente battere una Francia mediocre, guidata da un allenatore ancor più mediocre, capace di confondere il calcio con gli astri, la comunicazione con la tattica e i calciatori. L’Olanda da par suo, ha sconfitto e cancellato i sogni di gloria di una Romania troppo povera per poter impensierire la corazzata “orange”. Gli uomini di Piturca, gli stessi che ci avevano messo in difficoltà e che avevano sfiorato la vittoria, non sono mai entrati in partita, in quella che doveva essere la notte della vita. Strano il calcio..

L’Italia, da par nostro, ha faticato contro i transalpini - alla loro peggiore uscita internazionale dopo la terribile prestazione dei mondiali 2002 - soffrendo contro una squadra che ha disputato tre quarti di gara in dieci e che ha perso quasi subito il suo uomo più pericoloso: Ribery. Solo un miracolo di Buffon, il secondo in questo europeo dopo il rigore parato a Mutu, ha impedito ai Bleus di tornare in partita e farci soffrire fino al fischio finale.

La nazionale di Donadoni nei quarti troverà la Spagna, una delle favorite alla vittoria finale.  Una squadra ben diversa da quella francese, con cui ha in comune solo il fatto di essere allenata da un allenatore probabilmente non all’altezza, emblema di un calcio che non c’è più. Per battere gli iberici servirà un’altra Italia, più cinica e più attenta. Serviranno i gol di un Toni in versione meno vacanziera e più goleador, le giocate di un Cassano meno “compitino” e più fantasista. Del resto noi per i diavoli rossi abbiamo sempre rappresentato l’acqua santa..

martedì 10 giugno 2008

Il violoncellista di Sarajevo

Sarajevo, inizio anni novanta. Durante l'assedio della città un colpo di mortaio colpisce la gente in fila per acquistare il pane, uccidendo 22 persone. Un violoncellista, che vede dalla sua finestra la strage, decide di indossare il suo smoking, scendere in strada, sedersi sulla voragine, e nel silenzio dell'assedio, suonare l'Adagio di Albinoni. Così, ogni giorno alle quattro, per 22 giorni, sotto il tiro dei cecchini, per onorare i morti di Sarajevo, il violoncellista suona e la gente si ferma ad ascoltare. Ogni giorno il violoncellista sfida la brutalità della guerra per riprendersi il valore della vita. Perché “C'è un istante prima dell'impatto, l'ultimo in cui le cose sono come sono state. Poi il mondo visibile esplode”.

Il violoncellista di Sarajevo (Editore Mondadori – collana Strade blu, pagg. 201, euro 15,00), di Steven Galloway, si ispira a questo fatto di cronaca e alla figura di Vedran Smajlovic, unico sopravvissuto di un quartetto d'archi di Sarajevo, per raccontare le storie di tre personaggi molto diversi tra loro ma accomunati dalla terribile situazione di assediati. Non si incontrano mai con il violoncellista, né tra di loro, ma tutti in un modo o nell'altro sono mossi dalla sua musica. Il romanzo di Galloway segue i cammini difficili dei protagonisti, imprigionati nel labirinto di una città devastata dall'odio e dalla guerra. Tra le pagine del libro si percepisce la paura, la rabbia, l'amore, la desolazione. Si sente l'odore della polvere da sparo sulle dita, l'odore del terrore, l'odore del sangue, la polvere, il silenzio e lo scoppio delle granate.

Tre storie per racconatare al vita di migliaia di persone che cercano una normalità in una città stravolta. Uomini la cui occupazione è quella di procurare l'acqua per la sopravvivenza della famiglia, o il pane, o le medicine. Non ci sono Serbi, Bosniaci, Croati, musulmani, cristiani, ebrei. Sono persone. Persone che ogni giorno devono sfuggire alla morte e che ogni giorno, per questo, rinunciano alla vita.

Il suo è un libro incentrato su gli effetti che la guerra ha sulla gente. Come mai non viene affrontato il tema del  conflitto nell’ex Jugoslavia?

“Ho voluto scrivere un libro su gli effetti che la guerra ha sulla gente. Non mi interessava parlare dei militari di carriera, dei  generali o dei politici e neanche scrivere un romanzo sulla guerra in Bosnia. Il mio obiettivo è stato quello di raccontare l’effetto che la storia ha sulle persone comuni”.

La musica può essere lo strumento adatto a rimanere attaccati alla vita anche tra l emacerie e le distruzioni della guerra?

“Noi americani abbiamo la tendenza a considerare l'arte come oggetto di lusso, e la musica o libri una frivolezza. Voi europei avete una diversa considerazione dell’arte, che è uno dei pochi modi che abbiamo per non perdere la nostra umanità. Un modo di vedere che condivido a pieno”.

Il romanzo prende ispirazione dalla storia di Vedran Smajlovic. Quanto è stato importante raccogliere storie e scoprire luoghi e testimonianze della Sarajevo assediata?

“Sicuramente il libro si basa sulle testimonianze di alcune persone che mi hanno dedicato delle ore preziose a cercare di insegnarmi a ragionare come un abitante della Sarajevo assediata. L’importante però non capire se qualcosa è effettivamente accaduto o meno. Non voglio che i lettori considerino questo libro come una’accurata ricostruzione storica degli eventi. Le inevitabili incongruenze derivano dalla precisa volontà di raccontare delle storie al di là dei fatti relamente accaduti. Ai miei studenti insegno che raccontare un'idea basandosi solo sull’esperienza personale è di per sé una limitazione”.