mercoledì 15 ottobre 2008

La luna nel Pozzo

LECCE – La luna nel Pozzo. Ci pensa la luna, piena e ammaliatrice come in ogni favola, ad incorniciare quella calcistica di Marcello Lippi e a sorridere al record dell’allenatore viareggino, entrato di diritto nella storia per aver eguagliato il record di trenta risultati utili consecutivi stabilito da Vittorio Pozzo. La vittoria sul Montenegro sancisce un record impreziosito da quello stemma di campioni del mondo che brilla e inorgoglisce sul petto degli azzurri.

Lecce abbraccia la Nazionale con il consueto calore di ogni città del sud, abituata a bruciare di passione calcistica per ogni grande evento. La sfida con il Montenegro è di quelle che contano, in palio c’è una piccola fetta di qualificazione ai mondiali del 2010. Poco importa se il “Via del Mare” non è completamente gremito: la città si stringe attorno ai propri beniamini con calore ed entusiasmo. In campo ci sono anche alcuni ex illustri, come Marco Amelia e Mirko Vucinic, transitati con alterne fortune nella società giallorossa. Una sfida nella sfida quella tra i due: con l’estremo difensore azzurro che fa di tutto per non far rimpiangere l’infortunato Gigi Buffon. Dall’altra parte il montenegrino ci prova in tutti i modi ad impegnare il portiere del Palermo, segnando anche il gol del momentaneo pareggio.

Bello anche il duello a distanza tra Lippi e Filipovic, due “vecchi” gentiluomini che con competenza, carisma e stile danno lustro ad un mondo sempre più decadente come quello calcistico. I due, perfetti nei lori completi grigi, si scambiano reciproci attestati di stima: “Faccio i complimenti al Montenegro – commenta il ct azzurro – ho visti almeno 4/5 ottimi giocatori e sono sicuro che questa squadra farà grandi cose”. Poco dopo gli fa eco l’allenatore balcanico che in un perfetto italiano commenta: “I complimenti di un grande uomo di calcio come Lippi mi fanno molto piacere. Non siamo riusciti a trovare il pareggio ma ci può stare, del resto abbiamo giocato contro la difesa più forte al mondo”. Finisce così, con una leggera nebbiolina che avvolge il capoluogo salentino, a ricoprire la gioia dei vincenti e l’amarezza degli sconfitti, usciti però con l’onore delle armi di un Montenegro che probabilmente avrebbe meritato il pareggio.

Il Paese delle aquile

LECCE – Le ultime luci del crepuscolo salutano la fine di una giornata più primaverile che autunnale su Lecce. Un elicottero volteggia vigile e minaccioso su Piazza Mazzini, a ricordare che oggi è il giorno di Italia-Montenegro. Su un lato della piazza, cuore pulsante del commercio salentino, si radunano i tifosi montenegrini, pronti per essere scortati con dei pullman fino allo stadio. La situazione è comunque tranquilla. La gente sorride benevola ed incuriosita ai cori e alla tipica agitazione balcanica dei tifosi ospiti.

Elsad ha 25 anni e viene da Podgorica, la capitale della piccola repubblica balcanica, nata appena due anni fa con un referendum che ha sancito l’indipendenza dalla Serbia. Sul suo volto, illuminato ad intermittenza dalla luce azzurra dei lampeggianti dei mezzi schierati dalle forze dell’ordine, si legge tutta l’emozione e la gioia di chi sa di assistere ad un evento storico. Avvolto con orgoglio nella bandiera del suo paese (su cui spicca l’aquila bifronte rivolta ad Occidente e ad Oriente) ci racconta, in un italiano un po’ approssimativo, della sua trasferta: un lungo e faticoso viaggio che con pullman e traghetto lo ha condotto a Lecce attraverso Bar e Bari. Uno scioglilingua che rileva la vicinanza di due nazioni e di due culture separate solo da poche ore di traghetto. “Per noi è una grande gioia essere qui – spiega Edgar – l’Italia è un grande paese. Abbiamo viaggiato tutta la notte ma non importa, ciò che conta è esserci e tifare per la nostra bandiera”. Si è fatto tardi, gli agenti invitano i tifosi a salire sui mezzi per lo stadio, riusciamo però a strappare un pronostico sulla partita: “Vinciamo noi!” – urla Edgar. Poi sorride e a voce bassa ammette: “Speriamo in un pareggio, magari con gol di Vucinic”.

Il sogno di Edgar e dei tifosi montenegrini svanisce con il raddoppio di Aquilani. Loro sembrano non farci caso e continuano ad incitare incessantemente la loro squadra. Anche loro, così come Jovetic e compagni, meritano un bell’applauso.

mercoledì 10 settembre 2008

Salento Lungomare

Un viaggio attraverso il Salento per raccontare con immagini e versi una terra di miraggi, spazzata dai venti tra mare e mare. Nasce così, dopo il grande successo ottenuto con il libro fotografico “Salento”, la nuova opera di Marcello Moscara, secondo volume di questa collana ideale dedicata alle più suggestive rappresentazioni di questa regione nella regione, percorsa in questo caso tutta lunga la costa, da cui il titolo: Salento lungomare.

E’ il maggio del 2007 quando Moscara, fotografo ed autore di immagini e campagne fotografiche per l’editoria e la pubblicità, decide di intraprendere un lungo viaggio che lo porterà a percorrere oltre 200 chilometri, dalla spiaggia di Casalabate (vicino Lecce) fino al capo di Leuca, per poi risalire dal versante ionico su fino alla Palude del Conte, lì dove incomincia il Golfo di Taranto. Un cammino lungo quindici giorni, armato solo di un taccuino e di una macchina fotografica, fedele compagna di scatti rubati alla bellezza di un luogo epico, che dà la misura di tutte le cose e consente di raccontarle. “Mi sono messo a camminare – racconta il fotografo salentino – rimanendo per tutto il tempo lungomare. I miei passi su una linea di confine, a piedi dall’Adriatico allo Ionio. Tra riverberi e soffi di due mari ho camminato per quindici giorni, fermandomi di tanto in tanto a trascrivere i versi di un poeta”. I versi sono quelli di Pierluigi Mele, che accompagnano alcune immagini e ci raccontano la bellezza di una terra da amare: “come un dono, come un’ossessione”.

“La mia idea – racconta l’autore – nasce dal bisogno di penetrare il più possibile nel territorio e nella natura. Un’esperienza possibile solo camminando a piedi per giorni, passo dopo passo, ragionando con lentezza e riscoprendo la dimensione di quella solitudine necessaria a capire i luoghi”. Un’esperienza faticosa la sua: “Non pensavo fosse così dura. Ho percorso circa una ventina di chilometri al giorno, dormendo tra agriturismi e bed & breakfast. La prima notte sono stato ospite di un contadino nelle campagne di Frassanito, vicino a Torre Sant’Andrea. In questo viaggio ho scoperto luoghi e persone che non conoscevo”.

Il libro di Moscara ci riconsegna la bellezza di una terra magica e incantata, piena di meraviglia e stupore, sospesa tra due mari. Un mare che ci racconta storie e leggende di genti diverse, con sorrisi fatti di sole e lacrime di sale.

lunedì 8 settembre 2008

Viaggio tra i ricordi di un'infanzia perduta

Estate 1975. Nello scenario di una Puglia misteriosa, tra la campagna ed il mare, quattro ragazzi vivono un'esperienza che segnerà per sempre le loro esistenze. Matteo Leoni, un tredicenne timido e riservato con la passione della scrittura, e la cugina Valentina, sua coetanea bella ed intelligente, gli altri amici. L'estate scivola tra escursioni avventurose, corse in bicicletta, presenze inquietanti, bagni notturni, rocambolesche vicende familiari, amori sotterranei, risse e scoperte stupefacenti. Sullo sfondo la traccia misteriosa della foresta, compatta e scura, disegnata a rilievo sulla campagna. Come un cane nero, che corre. Poi arriva settembre, e segnerà la linea di confine, imprevedibile, che dividerà le loro vite.

Quello raccontato da Francesco Carofiglio è un viaggio delicato e struggente, scandito dalla malinconia del passato e dell’infanzia perduta. Dalle pagine dell’autore barese emerge un racconto fatto di ricordi e sensazioni dettagliati, scanditi da quella lentezza esasperante che spesso contraddistingue la vita adolescenziale. Un libro che si alimenta continuamente di atmosfere, sentimenti profondi, slanci emotivi e una tensione crescente che pervade progressivamente il racconto. Con uno stile di scrittura semplice e deciso, Carofiglio porta il lettore ad identificarsi con Matteo e i suoi amici e di vivere, insieme a loro, le emozioni di quella lontana estate. Un’estate che avrebbe cambiato molte cose nella vita del protagonista e in quella degli altri. Romanzo in un certo senso di formazione, l’estate del cane nero è un’opera narrativa che ci fa tornare indietro nel tempo, nel periodo dell'adolescenza in cui si fa tutto per la prima volta e, passo dopo passo, ci si avventura per le strade del mondo.

“Il cane nero – spiega l’autore – rappresenta quella che in psicologia si definisce reificazione, il processo mentale mediante il quale si dà concretezza all'oggetto di un'esperienza astratta, dando forma ad un timore non rivelato come nel caso del protagonista. Il cane nero sintetizza le tante cose che in una stagione della vita di ognuno rappresentano la linea critica, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, e di tutti quegli eventi che determinano l’evoluzione della loro vita. Mi piace pensare – conclude lo scrittore – che ciascun lettore possa dare, in forma autonoma, una interpretazione diversa della storia che racconto”.

mercoledì 20 agosto 2008

Kali nifta Cutrofiano..

Cutrofiano (Le) – Notte di musica e ricordi. Notte di tradizioni e genti che si incontrano sotto il cielo stellato della Grecìa. Nell’aria l’odore acre di vino, birra e sudore. I sapori della festa di popolo, di quelle serate fatte per far ballare e divertirsi.

Nell’aria si alza acuto il coro delle mondine di Novi, parole che sanno di lotte e cuori indomiti, di briganti e partigiani. Sembra Bassa e invece è Puglia. Anzi Salento, quello profondo e antico della Grecìa. Sul palco si incrociano le voci e le musiche di Ariacorte e Fiamma Fumana, la voce di Roberta Carrieri e quella di “Cisco” Bellotti. E’ un viaggio lungo la storia di una nazione, da nord a sud e viceversa. Un viaggio dentro la storia di un paese circondato dal mare ma legato alla terra, fatto di naviganti e contadini. Nulla meglio della musica può raccontare le nostre tradizioni, l’odore e il colore di una terra aspra e dura da conquistare, come le belle donne.

Canti di lotta e resistenza dicevamo, ma quella di Cutrofiano è anche e soprattutto notte di pizzica e taranta, come ci ricorda il suono ipnotico e ossessivo dei tamburelli e dei corpi che si muovono al ritmo di una danza che sa di corteggiamento, di corpi che si rincorrono e si sfiorano senza mai toccarsi. Danza pagana fatta di desiderio e passione, di riti ancestrali che si perdono lontani, tra antica Grecia e Medio Oriente. Scivola via la notte salentina, calda e avvolgente come l’abbraccio di una madre paziente. Kali nifta Cutrofiano.

venerdì 8 agosto 2008

Vlora 1991: una vergogna senza colpevoli

BARI – Giovedì 8 agosto 1991. E’ l’alba di una torrida mattina d’estate quando all’orizzonte, dal porto di Bari, inizia a intravedersi il profilo della nave mercantile “Vlora”. La scena che si presenta agli uomini della Guardia Costiera è di quelle difficili da dimenticare: a bordo dell’imbarcazione, una vecchia carretta del mare da novemila tonnellate di stazza, ci sono migliaia di persone stipate in ogni spazio disponibile. Un formicaio umano composto da circa ventimila disperati che da Durazzo in due giorni di navigazione hanno raggiunto le coste pugliesi inseguendo il sogno di una vita migliore, lontano dalla miseria di un’Albania segnata da una crisi senza precedenti dopo la morte del dittatore Enver Hoxa ed il conseguente crollo del regime comunista.

Il tentativo di ricacciare indietro la nave stracolma di profughi risulta subito vano: “Non sono in grado di prendere decisioni, – la drammatica risposta del comandante della Vlora, Alim Milaci – non comando nessuno. La nave è ingovernabile, a bordo ci sono bambini e malati”. Le immagini della Vlora che attracca al molo 30 del porto di Bari sono frammenti di storia indelebili: una folla stremata che si lancia in mare pur di poter abbandonare quell’inferno galleggiante. Ad attendere i profughi albanesi ci sarebbe stato però, di lì a poco, un altro inferno. Sono trascorse da poco le 10 quando in Prefettura arriva l’ordine di far sbarcare i clandestini e trasferirli nello “Stadio della Vittoria”. Inizia così un calvario che durerà cinque lunghissimi giorni. Indimenticabili le immagini dei containers (pieni di cibo caldo) utilizzati per bloccare le porte dello stadio. Dentro e fuori dallo stadio si scatena una autentica battaglia tra forze dell’ordine e bande di albanesi disposti a tutto. Il caldo si fa sempre più opprimente e cibo ed acqua scarseggiano. I pasti, solo panini, vengono lanciati all’interno del “Della Vittoria” con un elicottero o da una gru. Le immagini dello “stadio lager” come a pieno titolo lo definì l’allora sindaco di Bari Enrico Dalfino, fanno il giro del mondo, scatenando polemiche e proteste. Bisognerà arrivare alla vigilia di ferragosto perché la situazione torni lentamente alla normalità. La maggior parte dei profughi sarà rimpatriata in Albania a bordo di aerei militari C-130.

Sono trascorsi diciassette lunghi anni da quel terribile otto agosto, una data che ha segnato per sempre la storia del capoluogo pugliese. Quella della Vlora è una pagina nera che in tanti hanno provato a dimenticare, come se quei giorni non fossero mai esistiti. Angelo Amoroso d’Aragona, regista ed autore di documentari e cortometraggi con alle spalle una lunga esperienza nel cinema indipendente, ha vissuto quei giorni in prima persona, riprendendo ciò accadeva tra il porto e lo stadio. Da quelle immagini è nato un primo cortometraggio dal titolo “Vlora 1991 – Il mare dentro”, presentato al festival Arcipelago di Roma. Il regista barese in questi anni ha dato vita ad un nuovo progetto, quello di raccontare i giorni degli irriducibili e di ciò che avvenne all’interno dello stadio. Una volta ottenuti i primi finanziamenti Amoroso ha iniziato un lungo lavoro di ricerche: “Nel 2007 è iniziata la prima fase produttiva – racconta il regista – con le circa quattro ore di filmati girati all’epoca, sono andato in Albania alla ricerca di quei volti, spostandomi tra Tirana e Durazzo. Alla fine di questi viaggi ho raccolto circa una ventina di testimonianze. In seguito – prosegue Amoroso – è iniziata la ricerca negli archivi. Ho trascorso circa due mesi in Rai a visionare il loro materiale”.

Il grande lavoro di ricerca e di produzione svolto da Angelo Amoroso in questi anni confluirà in un documentario dal titolo “Lo stadio della Vittoria”. Un progetto ancora in fase di lavorazione che dovrebbe essere presentato nei prossimi mesi e che nel luglio scorso ha ottenuto i finanziamenti dell’Apulia Film Fund. Nel documentario si racconteranno le terribili esperienze vissute in quei giorni all’interno dello stadio: un inferno fatto di violenze, stupri e soprusi compiuti da bande criminali fuggite dal carcere di Tirana. Una guerra per sopravvivere lontana anni luce dall’idea stessa di nazione civile. Troppi gli interrogativi rimasti in sospeso in questi lunghi anni. La città e il sindaco di Bari Dalfino hanno pagato in prima persona le colpe di uno Stato incapace di affrontare un evento senza precedenti. Nelle decisioni e nelle errate valutazioni delle tre principali cariche istituzionali, il Presidente della Repubblica Cossiga, il Presidente del Consiglio Andreotti e il ministro degli Interni Scotti vanno ricercate le cause di una tragedia che ha segnato la storia del novecento. Resta da chiedersi come mai ad esempio non sia stato firmato l’atto che dichiarava l’emergenza nazionale e che prevedeva l’utilizzo dell’esercito e della protezione civile.

Oggi lo “Stadio della Vittoria” è profondamente cambiato da quei tragici giorni di diciassette anni fa. I lavori di rifacimento dell’impianto non sono riusciti però a cancellare la vergogna e ad allontanare i fantasmi di allora.

Andrea Morrone

 Pubblicato su Bari Sera del 7 agosto 2008

domenica 20 luglio 2008

Baricco e i Barbari

Lecce – Lezione sui barbari. A due anni dalla pubblicazione a puntate sul quotidiano "La Repubblica" e della prima edizione in forma di saggio per la casa editrice Fandango, Alessandro Baricco torna a girare l'Italia per promuovere la nuova edizione per Feltrinelli de I Barbari - Saggio sulla mutazione. 
Lo scrittore torinese ha fatto tappa in Puglia, ospite della libreria Liberrima, nella suggestiva cornice del Teatro Romano di Lecce.
Nella calda sera salentina, davanti ad un pubblico numeroso e attento, Baricco ha raccontato per un'ora i principi su cui si basa questa sua opera quanto mai controversa, accolta da molti critici con scetticismo. In questa serie di articoli l'autore cerca di affrontare e spiegare un interessante quanto universale quesito sociologico, la comune percezione umana di un imminente quanto violenta mutazione, che investe la nostra cultura in tutti i suoi aspetti, non solo nei modi ma altresì nei contenuti. 
"Il timore - spiega Baricco - di essere sopraffatti e distrutti da orde barbariche è vecchio come la storia della civiltà". La vera difficoltà in realtà è capire in che modo la nostra civiltà possa mutare e trasformarsi: senza mai dimenticare che si tratta di un processo assolutamente necessario, da cui è scaturita ogni evoluzione che ha segnato la nostra storia.
Ironico e tagliente, lo scrittore piemontese ci guida per mano tra le fila di questa invasione, attraverso gli esempi significativi di come strumenti come la televisione e Google (il motore di ricerca più utilizzato nel Web), abbiano fortemente modificato il modo di approcciarsi con la realtà che ci circonda. Esempi che dimostrano in maniera lampante come il nostro modo di conoscere sia ormai fondato sulla velocità e sulla capacità di viaggiare tra le cose in maniera superficiale. Una rivoluzione che nell'ultimo decennio ha profondamente modificato il nostro concetto di esperienza. La grande mutazione sta proprio nel modificare radicalmente l'idea stessa di esperienza, trasformando l'immobilità (una volta sinomino stesso di conoscenza del senso delle cose), nella capacità di muoversi tra di esse, cogliendone il significato più essenziale di ognuna.
La lezione di Baricco sui barbari del nostro tempo si è conclusa, a dispetto della complessità dei tremi trattati, in un autentico bagno di folla: centinaia i lettori che hanno letteralmente preso d'assalto l'autore di romanzi come Novecento e Oceano mare per farsi autografare una copia del suo ultimo lavoro. La perfetta chiusura di una bella serata all'insegna della cultura e del sapere.


lunedì 23 giugno 2008

Maiellaro: il poeta del calcio

Taranto, 25 giugno 1987. La notizia della cessione di Pietro Maiellaro agli acerrimi rivali del Bari provoca una vera e propria insurrezione dei tifosi ionici. I supporters rossoblu assaltano la sede della società in Viale Virgilio, contestando il presidente Fasano. Maiellaro guida comunque il Taranto negli spareggi salvezza di serie B che si disputano a Napoli pochi giorni dopo. Il primo luglio, con il pareggio con il Campobasso che vale la salvezza, il genio di Candela disputa l’ultima partita con la maglia del Taranto. Inizia così la grande avventura a Bari (costo dell’operazione 2 miliardi, 600 milioni e due giocatori): quattro stagioni indimenticabili, che fanno innamorare i tifosi biancorossi di un fuoriclasse capace di fare magie con la palla, un poeta del calcio capace di tracciare traiettorie impossibili, di accarezzare la sfera di cuoio con la delicatezza e la precisione di un dio del calcio.

Una carriera la sua segnata dal genio e dalla sregolatezza. Un modo di vivere il calcio fuori dagli schemi, da idolo ma anche da anti eroe per eccellenza. Un talento puro che poco amava le interviste e le cronache. Maiellaro ha sempre amato il calcio, quello puro e istintivo, fatto di passione di giocate ad effetto, il calcio dei numeri 10, quelli di una volta, quelli che facevano innamorare i tifosi e che trascinavano la gente allo stadio. Un grande talento rimasto in parte inespresso.

Anche l’incantesimo di Bari svanisce nell’estate del 1991, Maiellaro viene ceduto alla Fiorentina di Batistuta e dei Cecchi Gori. Non è un’annata felice per la squadra viola che conclude il campionato al dodicesimo posto. L’ex fantasista del Bari non brilla quasi mai, eclissandosi poco alla volta, raccogliendo 25 presenze e 4 reti. L’otto marzo 1992 Maiellaro torna a Bari da ex: il pubblico del “San Nicola” lo sommerge di fischi e lo chiama traditore, ma in fondo è il suo destino essere amato oppure odiato. Il sogno della serie A finisce presto: a fine stagione il centrocampista foggiano finisce a Venezia, dove disputa un altro campionato incolore. La stagione successiva è la volta di Cosenza, dove realizza uno dei gol più belli della sua carriera, guarda caso proprio contro la Fiorentina.

Chiusa la carriera da calciatore, per “lo zar” è iniziata quella da allenatore: Campobasso, la Berretti del Foggia, Lucera, Noicattaro, Barletta e Apricena le sue squadre da tecnico. Una esperienza in realtà non proprio esaltante, che ha permesso comunque all’ex fantasista di mettere in mostra le doti da allenatore. Oggi 17 anni dopo il suo addio, Maiellaro torna a Bari, dove allenerà i ragazzi della Primavera biancorossa, sostituendo Vincenzo Tavarilli che assumerà l'incarico di direttore tecnico del settore giovanile.

Che sapore ha questo ritorno a casa?

“Per me è un ritorno importante, un sogno che si realizza”.

Cosa può insegnare Maiellaro ai giovani?

“Innanzitutto vorrei trasmettere loro sicurezza e fargli capire che la Primavera può essere un trampolino importante per il debutto in prima squadra. In squadra ci sono giocatori di talento che possono far bene come Galano e Bellomo, due ’91, e Infimo. Spero di fargli capire che il calcio dev’essere anche e soprattutto divertimento”.

Torniamo indietro a quel giugno del 1987. Una intera città scese in piazza per impedire la sua cessione al Bari.

“Quelli di Taranto sono ricordi indelebili. Una piazza molto calda dove ho vissuto due belle stagioni. Quel giorno lo ricordo bene, mi trovavo a Taranto e stavo andando in sede quando vidi la folla radunata in Viale Virgilio. Non potetti fare altro che nascondermi in macchina e andare via. Quella fu comunque una bella dimostrazione di affetto da parte dei tifosi che non volevano fossi ceduto proprio al Bari. Col tempo invece quella cessione si è rivelata per me una cosa fantastica, perché ha segnato l’inizio della mia avventura in biancorosso”.

Qual’è stata la pagina più bella dei quattro anni a Bari?

“Direi senza dubbio l’anno in cui abbiamo centrato la promozione in A. La nostra era una squadra “tosta”, con giocatori di carattere e uno spogliatoio eccezionale. Un gruppo fondato soprattutto sul rispetto reciproco. Anche in serie A, nella mia ultima stagione a Bari ci siamo tolti delle belle soddisfazioni, battendo squadre come Juventus e Milan”.

Meglio il Bari spettacolare di Catuzzi o quello concreto di Salvemini?

“Il Bari di Catuzzi è stata senza dubbio una squadra straordinaria. Purtroppo però non ha ottenuto i successi che meritava, pur essendo riuscita ad esprimere, soprattutto in trasferta, un calcio spettacolare. Con Salvemini la squadra è diventata più solida, ha badato più alla classifica che al gioco”.

Si è mai pentito di aver lasciato Bari per Firenze?

“Col tempo sicuramente mi sono pentito, non tanto di aver scelto Firenze quanto di aver lasciato Bari. Allora pensavo che fosse per me una grande opportunità”.

Dopo la breve parentesi in viola, Venezia e Cosenza, dove ha segnato probabilmente il gol più bello della sua carriera.

“Sicuramente è stato il gol più particolare di quelli che ho segnato. Probabilmente se lo avessi fatto in serie A oggi continuerebbero a trasmetterlo di continuo. In quell’azione ne dribblai e ne caddero parecchi. Di fronte avevo giocatori come Effenberg, Iachini, Carnasciali e Pioli. Senza dimenticare in porta un certo Toldo”.

E il gol da centrocampo al “San Nicola” contro il Bologna?

“Lì magari più che il gol in se stesso c’è da premiare il gesto tecnico e l’abilità di essere riuscito a calciare da metà campo. Anche se sicuramente il portiere ci ha messo del suo”.

Qual’è stato l’attaccante più forte con cui abbia mai giocato?

“E’ difficile dirlo poiché ogni giocatore ha le sue caratteristiche. De Vitis ad esempio nei sedici metri era fenomenale, dotato di un piede di velluto. Però se andiamo ad analizzare elementi come la tecnica, il dribbling e la qualità, il vero fenomeno è stato Joao Paulo. Palla al piede era incontenibile. Attaccanti come Monelli e Scarafoni avevano grandi qualità, ma Messina rimane per me uno dei più grandi. Poi ho avuto la fortuna di giocare con un grande campione come Batistuta, anche se quando sono arrivato a Firenze per lui era il primo anno in Italia e stilisticamente non  era il massimo. In compenso aveva una forza fisica e una capacità di vedere la porta davvero impressionanti”.

A Taranto la chiamavano il poeta. Esistono ancora i numeri 10 alla Maiellaro?

“Quello era un calcio diverso, in cui si lasciava più spazio al talento, alle giocate per far entusiasmare la gente e allo spettacolo. I grandi talenti ci sono ma bisogna lasciarli giocare. Tocca a noi allenatori il compito di rischiare e premiare i  giocatori dotati di tecnica e fantasia”.

A proposito di talenti, come giudica l’europeo di Cassano?

“Finora non ho visto grandi prestazioni da parte sua. Ha fatto un pò più del compitino, ma non ha provato a saltare l’uomo, a trovare la giocata individuale. Il suo è stato una specie di riscaldamento, utile a conquistare la fiducia dell’allenatore. Sono sicuro che già dalla prossima partita vedremo un grande Cassano”.

Pubblicato su Bari Sera del 21/06/2008

martedì 17 giugno 2008

Francia o Spagna.. purchè si giochi..

L’incubo è finito. L’Italia approda ai quarti di finale di Euro 2008, con buona pace di tutti i biscottari, i complottisti e tutti i discendenti dell’italica convinzione che si perda sempre per colpa degli altri: la sfortuna, gli arbitri, gli avversari e il grande circo del pallone.

In realtà è stato sufficiente battere una Francia mediocre, guidata da un allenatore ancor più mediocre, capace di confondere il calcio con gli astri, la comunicazione con la tattica e i calciatori. L’Olanda da par suo, ha sconfitto e cancellato i sogni di gloria di una Romania troppo povera per poter impensierire la corazzata “orange”. Gli uomini di Piturca, gli stessi che ci avevano messo in difficoltà e che avevano sfiorato la vittoria, non sono mai entrati in partita, in quella che doveva essere la notte della vita. Strano il calcio..

L’Italia, da par nostro, ha faticato contro i transalpini - alla loro peggiore uscita internazionale dopo la terribile prestazione dei mondiali 2002 - soffrendo contro una squadra che ha disputato tre quarti di gara in dieci e che ha perso quasi subito il suo uomo più pericoloso: Ribery. Solo un miracolo di Buffon, il secondo in questo europeo dopo il rigore parato a Mutu, ha impedito ai Bleus di tornare in partita e farci soffrire fino al fischio finale.

La nazionale di Donadoni nei quarti troverà la Spagna, una delle favorite alla vittoria finale.  Una squadra ben diversa da quella francese, con cui ha in comune solo il fatto di essere allenata da un allenatore probabilmente non all’altezza, emblema di un calcio che non c’è più. Per battere gli iberici servirà un’altra Italia, più cinica e più attenta. Serviranno i gol di un Toni in versione meno vacanziera e più goleador, le giocate di un Cassano meno “compitino” e più fantasista. Del resto noi per i diavoli rossi abbiamo sempre rappresentato l’acqua santa..

martedì 10 giugno 2008

Il violoncellista di Sarajevo

Sarajevo, inizio anni novanta. Durante l'assedio della città un colpo di mortaio colpisce la gente in fila per acquistare il pane, uccidendo 22 persone. Un violoncellista, che vede dalla sua finestra la strage, decide di indossare il suo smoking, scendere in strada, sedersi sulla voragine, e nel silenzio dell'assedio, suonare l'Adagio di Albinoni. Così, ogni giorno alle quattro, per 22 giorni, sotto il tiro dei cecchini, per onorare i morti di Sarajevo, il violoncellista suona e la gente si ferma ad ascoltare. Ogni giorno il violoncellista sfida la brutalità della guerra per riprendersi il valore della vita. Perché “C'è un istante prima dell'impatto, l'ultimo in cui le cose sono come sono state. Poi il mondo visibile esplode”.

Il violoncellista di Sarajevo (Editore Mondadori – collana Strade blu, pagg. 201, euro 15,00), di Steven Galloway, si ispira a questo fatto di cronaca e alla figura di Vedran Smajlovic, unico sopravvissuto di un quartetto d'archi di Sarajevo, per raccontare le storie di tre personaggi molto diversi tra loro ma accomunati dalla terribile situazione di assediati. Non si incontrano mai con il violoncellista, né tra di loro, ma tutti in un modo o nell'altro sono mossi dalla sua musica. Il romanzo di Galloway segue i cammini difficili dei protagonisti, imprigionati nel labirinto di una città devastata dall'odio e dalla guerra. Tra le pagine del libro si percepisce la paura, la rabbia, l'amore, la desolazione. Si sente l'odore della polvere da sparo sulle dita, l'odore del terrore, l'odore del sangue, la polvere, il silenzio e lo scoppio delle granate.

Tre storie per racconatare al vita di migliaia di persone che cercano una normalità in una città stravolta. Uomini la cui occupazione è quella di procurare l'acqua per la sopravvivenza della famiglia, o il pane, o le medicine. Non ci sono Serbi, Bosniaci, Croati, musulmani, cristiani, ebrei. Sono persone. Persone che ogni giorno devono sfuggire alla morte e che ogni giorno, per questo, rinunciano alla vita.

Il suo è un libro incentrato su gli effetti che la guerra ha sulla gente. Come mai non viene affrontato il tema del  conflitto nell’ex Jugoslavia?

“Ho voluto scrivere un libro su gli effetti che la guerra ha sulla gente. Non mi interessava parlare dei militari di carriera, dei  generali o dei politici e neanche scrivere un romanzo sulla guerra in Bosnia. Il mio obiettivo è stato quello di raccontare l’effetto che la storia ha sulle persone comuni”.

La musica può essere lo strumento adatto a rimanere attaccati alla vita anche tra l emacerie e le distruzioni della guerra?

“Noi americani abbiamo la tendenza a considerare l'arte come oggetto di lusso, e la musica o libri una frivolezza. Voi europei avete una diversa considerazione dell’arte, che è uno dei pochi modi che abbiamo per non perdere la nostra umanità. Un modo di vedere che condivido a pieno”.

Il romanzo prende ispirazione dalla storia di Vedran Smajlovic. Quanto è stato importante raccogliere storie e scoprire luoghi e testimonianze della Sarajevo assediata?

“Sicuramente il libro si basa sulle testimonianze di alcune persone che mi hanno dedicato delle ore preziose a cercare di insegnarmi a ragionare come un abitante della Sarajevo assediata. L’importante però non capire se qualcosa è effettivamente accaduto o meno. Non voglio che i lettori considerino questo libro come una’accurata ricostruzione storica degli eventi. Le inevitabili incongruenze derivano dalla precisa volontà di raccontare delle storie al di là dei fatti relamente accaduti. Ai miei studenti insegno che raccontare un'idea basandosi solo sull’esperienza personale è di per sé una limitazione”.

giovedì 14 febbraio 2008

Ciao Pirata!

Marco Pantani se n'è andato in una fredda mattina di quattro anni fa. E' stata la sua ultima fuga, questa volta da una vita che gli ha regalato vittorie e successi, ma anche tanto dolore e solitudine. Perché la storia di Pantani, o meglio "Il Pirata" come lo chiamavano tutti i suoi tifosi, ci ha insegnato che si può essere grandi campioni e comunque soli, e soprattutto fragili.
Di lui ci rimangano le tante fantastiche vittorie, a cominciare dalla prima come esordiente in quel lontano 22 aprile 1984 a Case Castagnola. A quella vittoria, tante ne sarebbero seguite, segnate dalla sua voglia di vincere, di correre oltre la forza di gravità, di realizzare imprese impossibili, scalare vette e lottare contro tutto e tutti, anche la sfortuna. Quella sfortuna che sembrava accanirsi contro di lui, con le tante cadute e gli infortuni, fino al terribile incidente del 1995, quando un'auto lo travolge durante la Milano-Torino provocandogli la frattura scomposta della tibia e del perone. Eppure, ogni volta, ci ha insegnato che ci si può rialzare e che se ci credi veramente nulla ti può fermare, ogni volta puoi tornare a correre più forte di prima. E' per questo che la gente lo amava. Pantani era capace di far sognare tutti i tifosi con le sue straordinarie imprese, l'Alpe d' Huez, Le Deux Alpes, le vittorie al Giro e al Tour.
Pagine indimenticabili, scritte nel grande libro della storia di quello sport bellissimo che è il ciclismo. La frase più bella su di lui l'ha probabilmente detta Adriano De Zan, una vita passata a raccontare il ciclismo e le sue piccoli e grandi storie, quando, con la voce rotta dall'emozione, esclamò: "Non c'è niente da fare, quando la strada sale sotto i pedali...Marco Pantani è il più forte!!!". Già perché in salita il pirata era imprendibile, un uomo in fuga da tutto e tutti. Sarà stato forse perché le salite sono un po' come la vita, devi soffrire e lottare per arrivare in cima, ma quando lui saliva sui pedali e scattava, nessuno riusciva a stargli dietro, nemmeno quel destino beffardo che una mattina, era il 5 giugno del 1999, segnerà per sempre la sua storia. Quella maledetta mattina di giugno a fermare Pantani sono i valori del suo sangue, il livello di ematocrito superera i limiti previsti dal regolamento, addio al Giro e quindici giorni di squalifica. Per Pantani è l'inizio della fine. Quello che scortato dai carabinieri si allontana a bordo di un'auto, non è più il pirata, il campione che tutti conoscevano e amavano.
Dopo tante salite per Pantani inizia una discesa senza fine, che lo condurrà, in un abisso di solitudine e disperazione, alla morte. La mattina del 14 febbraio 2004 il cadavere del corridore viene rinvenuto in una stanza del residence "Le Rose" di Rimini. Ciao campione, chissà se lassù, a tenerti compagnia, c'è la tua inseparabile bicicletta.

Perchè quelli come noi
han bisogno di sognare..
Io dal passo del Pordoi
chiudo gli occhi e vedo il mare..

venerdì 11 gennaio 2008

Fuori i secondi

Tutto ciò che vedi all’inizio sono solo tre righe. Poi, pian piano, ti accorgi che quelle tre righe sono in realtà tre corde, messe lì a girare in torno ad un quadrato, ad avvolgerlo e a delimitarlo, a segnare un confine immaginario, tra lui e il mondo. Sì perché se guardi con più attenzione ti accorgi che lì in un angolo si muove una figura, quasi indistinta, come un insieme di colori mossi da una mano invisibile. Ma se presti ancora più attenzione ti accorgi che a muoversi in realtà è un uomo avvolto da un accappatoio pieno di colori, lì un angolo come se niente fosse, come se non esistesse nient’altro al mondo che quel suo piccolo spazio. Può sembrarti perfino buffo all’inizio, quest’uomo in pantaloncini ed accappatoio a saltellare lì in mezzo al nulla, a fissare un punto indefinito, e a menare fendenti nell’aria contro nemici invisibili. Ma dopo un ti accorgi che non esiste niente di più bello, di quella figura che racchiude in se tutta la solitudine che ci può essere, una solitudine che ti toglie il respiro, che ti lascia rapito a chiederti cosa si nasconde in quella figura e perché non riesci più a distogliere il tuo sguardo. E allora, sempre saltellando, per un attimo si volta verso di te, e vedi i suoi occhi e sai che non potrai mai più dimenticarli. Non hai mai visto due occhi così, capaci di racchiudere tutto il bello ed il brutto della vita, la felicità e la tristezza, la rabbia, le vittorie, i sogni, le sconfitte, le lacrime e i sorrisi. Tutto racchiuso in due piccoli mondi azzurri, segnati dal più faticoso dei compiti: esistere. Ed anche se è stato solo un attimo, in quegli occhi hai visto passare una vita, la vita di un uomo, che poi è un forse anche la tua, con tutto ciò che la compone.
Ti ricordi in quel momento di una frase bellissima, che hai visto su un vecchio cartello appeso in una palestra o letto forse in un racconto sulla boxe e sul suo mondo pieno di fascino: “La boxe la fai se hai fame, non importa di che cosa”. Già, perchè il pugilato è un mondo a parte, un mondo che in tanti hanno provato a raccontare: con i suoi sogni, i sacrifici, le paure, le sofferenze e gli odori che ti rimangono appiccicati. Sì perché quell’odore, quello che senti la prima volta che entri in una palestra di boxe, non lo dimentichi, entra dentro di te e non ti lascia più. Ma la boxe è molto di più di un odore, e di uno sport, è una sfida, contro se stessi e contro il mondo, contro tutto ciò che non ti è stato dato o che ti è stato tolto, contro ciò che la vita non ti ha saputo regalare, contro le tue debolezze, i fallimenti che ti porti appresso e che non puoi dimenticare. Pian piano ti accorgi che giorno dopo giorno, stando lì a saltare e sudare, a correre e imprecare, a sfiancarti contro un sacco, inizi ad aprire una porta rivolta verso te stesso, e a guardare il mondo, il tuo mondo e le mille storie che lo compongono. Perché la magia di questo sport sta proprio lì, nel saper affrontare i colpi che la vita ti tira addosso, sputandoti in faccia le tue miserie e capire che prima o poi ti puoi rialzare e farcela, anche da solo. Ed allora ti senti leggero e invincibile, pronto a sfidare il mondo intero.