sabato 29 dicembre 2007

The people's club

Pioggia e vento che soffia gelido e incessante dal Mursey. Nell’aria odore di salsiccia, patatine e birra. Ovunque sciarpe e maglie azzurre indossate con la fierezza di appartenere a qualcosa di grande. Benvenuti nel magico mondo del calcio inglese e di una città che di calcio vive e respira: Liverpool. La sponda è quella dei “blues” dell’Everton, la faccia più bella del football nel Murseyside. Goodison Park è il loro tempio e qui non sembrano preoccuparsi troppo dei più blasonati cugini in rosso. I toffees (soprannome usuale degli immigrati irlandesi di Liverpool, tendenzialmente vicini al club) sono gente orgogliosa e fiera della propria squadra. Il loro del resto, con quasi centotrenta anni di storia, è il club più antico di Liverpool, con un motto che spiega da se la grandezza di questa squadra: “Nil satis nisi optimum” ovverosia “solo il meglio è abbastanza”.
Mancano ormai due gironi all’arrivo del 2008 ma il calcio inglese con conosce soste o festività natalizie, qui si gioca sempre. L’incontro è di quelli di cartello, al Goodison Park sbarca la corazzata Arsenal. Il cielo nero come la pece preannuncia tempesta e inviterebbe più che a una partita di calcio ad una serata di bevute e racconti nel pub sotto casa. Pochi però sembrano preoccuparsene e lo stadio è gremito come per una finale. Entrare nel vecchio, scricchiolante, magnifico Goodison Park è una emozione che ti rimane dentro e ti avvolge. In campo le due squadre si danno battaglia e infiammano le tribune. Il gol dell’australiano Cahill è solo una breve illusione che fa da preludio alla rimonta dei gunners. L’Everton incassa quattro gol, ma continua a crederci fino al 95’. La gente apprezza ed applaude. Alla fine, scrutando i volti dei tifosi che abbandonano lo stadio per le stradine buie che circondano l’impianto, viene da chiedersi chi sia realmente il vincitore. Dannati blues vi adoro. Mentre scende la notte su Liverpool pensi che c’è tempo per un panino e per una buona pinta, anzi, meglio qualcuna in più. Anche questo fa parte di quel grande romanzo popolare che è il calcio in Inghilterra.

lunedì 24 dicembre 2007

Oceano Mare

“..Quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. E qualcuno un padre, un amore, qualcuno capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume immaginarlo, inventarlo e sulla sua corrente posarci, con la leggerezza di una sola parola, addio. Questo, davvero, sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa. Ma tutto sarebbe, finalmente, umano. Basterebbe la fantasia di qualcuno un padre, un amore, qualcuno. Lui saprebbe inventarla una strada, qui, in mezzo a questo silenzio, in questa terra che non vuole parlare. Strada clemente, e bella. Una strada da qui al mare”.

Alessandro Baricco

venerdì 21 dicembre 2007

Triste, solitario y Soriano

Osvaldo Soriano è stato un meraviglioso scrittore argentino. A lui piacevano i sogni e il calcio, lui che da ragazzo era stato centravanti mancino del San Lorenzo e sapeva cosa vuol dire sognare, prima che un menisco assassino o qualche caviglia sbilenca lo spingessero verso il più prosaico mestiere del giornalismo. Gli piaceva raccontare il calcio e soprattutto gli allenatori. Gli allenatori sono figure complesse e malinconiche, e la smisurata differenza antropologica che li separa dai calciatori è la stessa che divide un giocatore di scacchi dalle sue pedine. Certo, queste sono pedine animate, ma questo non fa che rendere la vita dell’allenatore ancora più stressante. Una volta uno di questi, Orlando El Sucio, andò nella redazione dove lavorava, a pubblicizzare non so quale miracoloso metodo per vincere alla roulette (i fallimenti, nei racconti di Soriano, sono sempre teneri e mirabolanti e ogni personaggio è un circo e un romanzo). Vide il suo ex bomber mancino, che già da giocatore dimostrava una tendenza alla pinguedine, tanto che i tifosi lo soprannominarono “El Gordo”, e gli chiese perché fosse finito a “scrivere stupidate in un giornale”. La risposta fu di quelle fulminanti, di quelle da portarsi come difesa in tutti i tribunali: “Non so, un giorno la porta mi si è ristretta. A volte succede” gli rispose, e porse una foto di quando era giovane e indossava la maglia dell’Independiente. “Tre cose hanno segnato la mia vita”, gli spiegò, “il giorno in cui mi si è ristretta la porta, la sera in cui ho perduto centomila pesos al casinò e l’alba in cui se n’è andata la donna di cui ero innamorato.”
Ci sono quelli a cui a un certo punto la porta si restringe e quelli che ce l’hanno invece spalancata per una vita intera, come fauci, a raccogliere successi e glorie per i millimetri di uno spazio che ti è amico. Ed infine ci sono quelli che la porta ce l’hanno così infinitamente stretta che ogni volta che sono lì, che vedono lo spiraglio di luce giusto, esatto, per poi chiudersi all’improvviso, sanno che lì, in quegli attimi ciò che appare è un destino. Tutti ne hanno uno, e a volte i metri della porta, meccanici e uguali ovunque nel mondo, diventano sottili come un respiro. E provateci, voi, a segnare in un respiro, o a non chiamarlo destino.
Il calcio né è pieno, di cavalieri degli spazi sottili, meravigliosi giocolieri, con piedi fatati capaci di muoversi a tempo di musica, che all’improvviso cominciano a sbagliare tutto, tutto quello che si può sbagliare, con un’esattezza micidiale. Guardateli, quegli occhi che cercano di fissare i fantasmi che spostano le linee. Come i poeti che all’improvviso la musica nella testa non è la musica dei versi, gli scrittori con le storie che girano su se stesse, come giostre impazzite, gli amanti che perdono, da un giorno all’altro, la nota di cristallo dell’amore, o gli esami che vanno male in serie, catene di montaggio degli errori, le parole che escono fuori sempre sbagliate. Tutte porte che all’improvvisano diventano strette. A volte succede anche agli allenatori.
Questa storia è dedicata, con affetto, a tutti quelli che perdono, che vanno alla deriva, che si lasciano andare, che sprecano le occasioni. A tutti quelli che sanno che la distanza che ti separa dalla porta non è questione di metri ma di destino.

Castelli di rabbia

..Iniziò a piangere, in quel modo che è un modo bellissimo, un segreto di pochi, piangono solo con gli occhi, come bicchieri pieni fino all'orlo di tristezza, e impassibili mentre quella goccia di troppo alla fine li vince e scivola giù dai bordi, seguita poi da mille altre, e immobili se ne stanno lì mentre gli cola addosso la loro minuta disfatta.

Alle sconfitte della vita..

Ritorno a Croke Park

Dublino, 24 febbraio 2007. Sotto un ciel grigio e carico di pioggia scendono in campo due rivali storiche della palla ovale: Irlanda e Inghilterra. Non è una partita come le altre. La nazionale irlandese di rugby è l’unica a rappresentare in unica squadra sia la Repubblica d’Irlanda che l’Irlanda del Nord, le “trentadue contee” come le chiamano gli irlandesi. A rendere unica questa la sfida è però il luogo: lo stadio di Croke Park. Per la prima volta dalla domenica di sangue del 1920, da quando cioè durante una partita di calcio gaelico le truppe britanniche spararono sugli spalti uccidendo 12 persone, il rugby torna a Corke Park. Dopo quella domenica la Gaa, Gaelic Athletic Association, bandì per sempre gli sport inglesi, come calcio e rugby, dall’impianto. “Fino a quando”, così diceva la regola, “la bandiera irlandese non sventolerà su tutte e 32 le contee”. Una regola abolita dalla necessità, visto che Lansdowne Road, lo stadio più antico oltre che il vero tempio del rugby irlandese, verrà distrutto e ricostruito. E così, dopo oltre ottant’anni, le note di “God save the Queen” sono tornate ad echeggiare nel cielo di Croke Park. Per gli inglesi non è stato un bel ritorno. La sconfitta rimediata, 43 a 13, è stata la più pesante della loro storia. Per gli irlandesi invece non ci poteva essere vittoria più esaltante. Ci sono serate, come quella di un sabato di febbraio a Dublino, in cui lo sport diventa storia.

Quella magica sera al Murrayfield

24 febbraio 2007, una data che rimarrà per sempre impressa nella storia del nostro rugby. Sono bastati solo sette minuti, dopo un’attesa lunga sette anni, per realizzare questa impresa. L’Italia del rugby ottiene la prima vittoria in trasferta nella storia del “Sei Nazioni”. Per la prima volta dal 2000, anno in cui l’Italia è entrata a far parte del torneo, gli azzurri centrano un successo esterno, lontano da Roma. Successo ancor più prestigioso perché ottenuto a Murrayfield, il tempio del rugby scozzese ad Edimburgo, dinanzi a cinquantamila esterrefatti tifosi di casa e cinquemila italiani pazzi di gioia. L’Italia costruisce il successo nei primi 7 minuti, realizzando ben tre mete grazie ad altrettanti ovali intercettati. La Scozia si trova così inaspettatamente sotto per 21 a 0, il pubblico ammutolisce. Il rugby però è sport fatto di cuore e coraggio, i padroni di casa reagiscono e tentano in tutti i modi di recuperare. Saranno altri settanta minuti di autentica battaglia. Gli azzurri compiono un autentico capolavoro, alla fine il punteggio parla chiaro: Scozia 17 – Italia 37. Un vero trionfo, come non era mai successo nella storia del rugby nostrano. Alla fine, per la seconda volta consecutiva, Alessandro Troncon verrà premiato come “man of the match”, il miglior uomo della partita. Una bella pagina scritta nella storia di uno sport antico e fiero, basato su un principio basilare, portare la palla (che in questo caso è ovale) in territorio “avversario”, oltre la linea di meta. Detta così sembra anche facile, se non fosse per una regola assurda e al tempo stesso meravigliosa, la palla la puoi passare solo indietro. Magia di uno sport capace di scrivere pagine bellissime di storia.

Sisifo e l'Inter

Una grande e continua fatica alla ricerca di un risultato irraggiungibile, proprio come nel mito di Sisifo. E’ sembrata questa, per diciotto lunghi anni, la sintesi della storia nerazzurra. La ricerca di un traguardo – lo scudetto – cercato e sfiorato per quasi un ventennio. Proprio come il mitico fondatore di Corinto, condannato da Zeus a far rotolare un masso dalla base alla cima di un monte assistendo impotente, ogni volta che stava per raggiungere la cima, a guardare il masso rotolare nuovamente alla base della montagna, l’Inter ha visto svanire in questi anni quello scudetto che sembrava impossibile da conquistare, come nel “tragico” e beffardo pomeriggio del cinque maggio 2002, una data difficile da dimenticare per tutti i tifosi nerazzurri. Lo spettro di quell’infausta giornata di cinque anni fa è sembrato aleggiare su “San Siro” mercoledì scorso, quando la società milanese è sembrata voler vestire ancora una volta i panni di Sisifo, rimediando l’unica sconfitta stagionale proprio nel giorno che avrebbe potuto regalargli quello scudetto tanto atteso. Troppo facile per la “pazza Inter” vincere in maniera così scontata, davanti al proprio pubblico e nella sfida più attesa. Certo una sconfitta non poteva cancellare i record, le vittorie e il divario quasi incolmabile in classifica, ma agli interisti è sembrato quasi vedere il masso iniziare a rotolare giù per la montagna del campionato.
Il trionfo tanto agognato, è arrivato quattro giorni dopo, complice la sconfitta della Roma a Bergamo e la vittoria interista a Siena. Nella città del Palio la squadra nerazzurra ha centrato, con una doppietta di Marco Materazzi, il sigillo ad una stagione trionfale. In un pomeriggio torrido, a quasi diciotto anni da quel lontano ventinove maggio 1989, l’Inter ha centrato il suo quindicesimo scudetto. Uno scudetto meritato e conquistato sul campo, a differenza di quello assegnato “d’ufficio” per le note vicende di calciopoli.
Difficilmente il popolo nerazzurro potrà dimenticare il pomeriggio del ventidue aprile 2007, il giorno del trionfo in cui la realtà ha superato il mito. L’Inter ha svestito i panni di Sisifo per indossare la maglia con il tricolore. Il masso è finalmente piantato su in cima alla montagna e su di esso ci sono migliaia di interisti a far festa.

giovedì 29 novembre 2007

Deserto siriano


"Non bastano tutti i cammelli del deserto per comprare un amico..."

Proverbio Arabo

giovedì 29 marzo 2007

Italia-Scozia, la festa del calcio

BARI - Tenera è la notte del San Nicola. Per una sera il cielo di Bari torna a tingersi d'azzurro come quello di Berlino e delle notti magiche di Italia ‘90. Sembra di fare un tuffo indietro negli anni, a quella serata di 17 anni fa, alla finale per il terzo posto tra Italia e Inghilterra. Erano altri tempi quelli, con la magica coppia gol Baggio-Schillaci e l’illusione di un mondiale solo sfiorato. Questa sera, ha le stesse emozioni di allora. Lo stadio San Nicola sembra, per una volta, di nuovo un'astronave pronta a decollare verso la galassia del calcio che conta. E allora sarà per questa atmosfera, sarà per lo stadio gremito all'inverosimile (anche da seimila scozzesi pacifici e festanti), sarà che per una volta il calcio è capace di trasformarsi in una bella festa, sarà per tutto questo dicevamo che nel momento in cui le prime note dell'inno nazionale cominciano a riempire il cielo barese, sentiamo un brivido correre improvviso lungo schiena.
Poco importa poi se la partita in se offra uno spettacolo calcisticamente mediocre. La Scozia, nonostante il tifo assordante di seimila tifosi giunti in terra di Bari e davvero encomiabili, si dimostra ben poca cosa. Alla fine per l'attesissimo Buffon c'è ben poco lavoro, un solo tiro in porta in tutta la gara. Sicuramente, i tanti scozzesi giunti sino in terra di Bari per seguire la nazionale, meriterebbero molto di più, ma il calcio è fatto così, raramente ripaga le fatiche dei supporters. Lo sanno bene anche i tifosi baresi che non si lasciano sfuggire la ghiotta occasione di poter contestare in diretta nazionale il loro "amato" Presidente.
Alla fine c'è spazio anche per Del Piero, beniamino del pubblico e accolto da un'autentica ovazione. Donadoni gli concede poco meno di mezz'ora, tempo in cui il fantasista bianconero sembra voler spaccare il mondo e battere la Scozia da solo. Ognuno cerca di prendersi le proprie rivincite nel calcio, dalla vita o dagli allenatori. In compenso, ad ogni azione, "Pinturicchio" viene osannato da un pubblico che rende omaggio alla sua classe e ai tanti anni spesi per la causa azzurra. Passerella infine anche per Luca Toni, vero mattatore della serata e autore di una splendida doppietta. L'attaccante viola esce tra gli applausi scroscianti di tutto lo stadio, compreso la curva scozzese. La notte azzurra scivola via così nel trionfo azzurro, con il pubblico a cantare e far festa, e la gioia di aver assistito ad un bel momento di sport che sarà difficile dimenticare.
Magnifico il finale, con il fantastico pubblico scozzese a festeggiare nonostante la sconfitta, e a insegnarci che, nel calcio così come nella vita, si può anche perdere, l'importante è farlo da "uomini" e soprattutto da sportivi, consci che la cosa più bella è esserci, e che in fondo, dopo ogni partita, la vita, così come la palla, continua a scorrere e a rotolare.


lunedì 29 gennaio 2007

Incipit: una fredda sera d'inverno..

La domanda è quasi banale: "percè nasce questo Blog"? Ho creato questo Blog perchè ho sempre sognato, sin da piccolo, di raccontare storie e cercare di descrivere il mondo così come lo vedo, con la sua bellezza e la sua tristezza, le meraviglie e le brutture, i sogni e le speranze, le passioni e le fughe, le vittorie e le sconfitte. Tutto ciò insomma che ogni giorno la vita ci regala: nel bene e nel male. Poi, non da ultimo, ho sempre sognato di fare il giornalista, da quando mio nonno mi prestava i suoi libri di Biagi, e da quando, una sera di tanti anni fa, ho visto con mio padre un film bellissimo: "Tutti gli uomini del Presidente". Sognavo di fare il cronista e girare il mondo e raccontare la storia in prima persona. Quel sogno oggi è diventato (almeno in parte) realtà, a dimostrazione che spesso, se ci credi fino in fondo, le cose accadono. Questa è la magia della vita.
Ora però bando ai ricordi e alle malinconie, inizia una nuova avventura..