Taranto, 25 giugno 1987. La notizia della cessione di Pietro Maiellaro agli acerrimi rivali del Bari provoca una vera e propria insurrezione dei tifosi ionici. I supporters rossoblu assaltano la sede della società in Viale Virgilio, contestando il presidente Fasano. Maiellaro guida comunque il Taranto negli spareggi salvezza di serie B che si disputano a Napoli pochi giorni dopo. Il primo luglio, con il pareggio con il Campobasso che vale la salvezza, il genio di Candela disputa l’ultima partita con la maglia del Taranto. Inizia così la grande avventura a Bari (costo dell’operazione 2 miliardi, 600 milioni e due giocatori): quattro stagioni indimenticabili, che fanno innamorare i tifosi biancorossi di un fuoriclasse capace di fare magie con la palla, un poeta del calcio capace di tracciare traiettorie impossibili, di accarezzare la sfera di cuoio con la delicatezza e la precisione di un dio del calcio.
Una carriera la sua segnata dal genio e dalla sregolatezza. Un modo di vivere il calcio fuori dagli schemi, da idolo ma anche da anti eroe per eccellenza. Un talento puro che poco amava le interviste e le cronache. Maiellaro ha sempre amato il calcio, quello puro e istintivo, fatto di passione di giocate ad effetto, il calcio dei numeri 10, quelli di una volta, quelli che facevano innamorare i tifosi e che trascinavano la gente allo stadio. Un grande talento rimasto in parte inespresso.
Anche l’incantesimo di Bari svanisce nell’estate del 1991, Maiellaro viene ceduto alla Fiorentina di Batistuta e dei Cecchi Gori. Non è un’annata felice per la squadra viola che conclude il campionato al dodicesimo posto. L’ex fantasista del Bari non brilla quasi mai, eclissandosi poco alla volta, raccogliendo 25 presenze e 4 reti. L’otto marzo 1992 Maiellaro torna a Bari da ex: il pubblico del “San Nicola” lo sommerge di fischi e lo chiama traditore, ma in fondo è il suo destino essere amato oppure odiato. Il sogno della serie A finisce presto: a fine stagione il centrocampista foggiano finisce a Venezia, dove disputa un altro campionato incolore. La stagione successiva è la volta di Cosenza, dove realizza uno dei gol più belli della sua carriera, guarda caso proprio contro la Fiorentina.
Chiusa la carriera da calciatore, per “lo zar” è iniziata quella da allenatore: Campobasso, la Berretti del Foggia, Lucera, Noicattaro, Barletta e Apricena le sue squadre da tecnico. Una esperienza in realtà non proprio esaltante, che ha permesso comunque all’ex fantasista di mettere in mostra le doti da allenatore. Oggi 17 anni dopo il suo addio, Maiellaro torna a Bari, dove allenerà i ragazzi della Primavera biancorossa, sostituendo Vincenzo Tavarilli che assumerà l'incarico di direttore tecnico del settore giovanile.
Che sapore ha questo ritorno a casa?
“Per me è un ritorno importante, un sogno che si realizza”.
Cosa può insegnare Maiellaro ai giovani?
“Innanzitutto vorrei trasmettere loro sicurezza e fargli capire che la Primavera può essere un trampolino importante per il debutto in prima squadra. In squadra ci sono giocatori di talento che possono far bene come Galano e Bellomo, due ’91, e Infimo. Spero di fargli capire che il calcio dev’essere anche e soprattutto divertimento”.
Torniamo indietro a quel giugno del 1987. Una intera città scese in piazza per impedire la sua cessione al Bari.
“Quelli di Taranto sono ricordi indelebili. Una piazza molto calda dove ho vissuto due belle stagioni. Quel giorno lo ricordo bene, mi trovavo a Taranto e stavo andando in sede quando vidi la folla radunata in Viale Virgilio. Non potetti fare altro che nascondermi in macchina e andare via. Quella fu comunque una bella dimostrazione di affetto da parte dei tifosi che non volevano fossi ceduto proprio al Bari. Col tempo invece quella cessione si è rivelata per me una cosa fantastica, perché ha segnato l’inizio della mia avventura in biancorosso”.
Qual’è stata la pagina più bella dei quattro anni a Bari?
“Direi senza dubbio l’anno in cui abbiamo centrato la promozione in A. La nostra era una squadra “tosta”, con giocatori di carattere e uno spogliatoio eccezionale. Un gruppo fondato soprattutto sul rispetto reciproco. Anche in serie A, nella mia ultima stagione a Bari ci siamo tolti delle belle soddisfazioni, battendo squadre come Juventus e Milan”.
Meglio il Bari spettacolare di Catuzzi o quello concreto di Salvemini?
“Il Bari di Catuzzi è stata senza dubbio una squadra straordinaria. Purtroppo però non ha ottenuto i successi che meritava, pur essendo riuscita ad esprimere, soprattutto in trasferta, un calcio spettacolare. Con Salvemini la squadra è diventata più solida, ha badato più alla classifica che al gioco”.
Si è mai pentito di aver lasciato Bari per Firenze?
“Col tempo sicuramente mi sono pentito, non tanto di aver scelto Firenze quanto di aver lasciato Bari. Allora pensavo che fosse per me una grande opportunità”.
Dopo la breve parentesi in viola, Venezia e Cosenza, dove ha segnato probabilmente il gol più bello della sua carriera.
“Sicuramente è stato il gol più particolare di quelli che ho segnato. Probabilmente se lo avessi fatto in serie A oggi continuerebbero a trasmetterlo di continuo. In quell’azione ne dribblai e ne caddero parecchi. Di fronte avevo giocatori come Effenberg, Iachini, Carnasciali e Pioli. Senza dimenticare in porta un certo Toldo”.
E il gol da centrocampo al “San Nicola” contro il Bologna?
“Lì magari più che il gol in se stesso c’è da premiare il gesto tecnico e l’abilità di essere riuscito a calciare da metà campo. Anche se sicuramente il portiere ci ha messo del suo”.
Qual’è stato l’attaccante più forte con cui abbia mai giocato?
“E’ difficile dirlo poiché ogni giocatore ha le sue caratteristiche. De Vitis ad esempio nei sedici metri era fenomenale, dotato di un piede di velluto. Però se andiamo ad analizzare elementi come la tecnica, il dribbling e la qualità, il vero fenomeno è stato Joao Paulo. Palla al piede era incontenibile. Attaccanti come Monelli e Scarafoni avevano grandi qualità, ma Messina rimane per me uno dei più grandi. Poi ho avuto la fortuna di giocare con un grande campione come Batistuta, anche se quando sono arrivato a Firenze per lui era il primo anno in Italia e stilisticamente non era il massimo. In compenso aveva una forza fisica e una capacità di vedere la porta davvero impressionanti”.
A Taranto la chiamavano il poeta. Esistono ancora i numeri 10 alla Maiellaro?
“Quello era un calcio diverso, in cui si lasciava più spazio al talento, alle giocate per far entusiasmare la gente e allo spettacolo. I grandi talenti ci sono ma bisogna lasciarli giocare. Tocca a noi allenatori il compito di rischiare e premiare i giocatori dotati di tecnica e fantasia”.
A proposito di talenti, come giudica l’europeo di Cassano?
“Finora non ho visto grandi prestazioni da parte sua. Ha fatto un pò più del compitino, ma non ha provato a saltare l’uomo, a trovare la giocata individuale. Il suo è stato una specie di riscaldamento, utile a conquistare la fiducia dell’allenatore. Sono sicuro che già dalla prossima partita vedremo un grande Cassano”.
Pubblicato su Bari Sera del 21/06/2008